NODO 3
Nuove dinamichedi consumo
dalla tutela del suolo fino alla revisione del concetto di globalizzazione
dalla tutela del suolo fino alla revisione del concetto di globalizzazione
e nuovi sistemi di creazione dei prodotti
Uno degli elementi fondamentali per analizzare l’epidemia di Covid 19 consiste nella comprensione dei processi che hanno favorito la sua nascita, diffusione e permanenza in tutti gli Stati mondiali.
Per osservare la natura di questo virus al di fuori dell’ambito puramente epidemiologico, infatti, occorre accettare una riflessione sulle metodologie di consumo che siamo abituati a sperimentare. Questo comporta una previsione su come questi stessi fattori saranno chiamati a modificarsi nel breve e nel medio periodo, così da disinnescare quell’intreccio di elementi e cause che potrebbero (ce lo dicono i modelli statistici, e ne sono dannatamente certi) presentarci il conto di una nuova pandemia a strettissimo giro.
Partiamo dal concetto di globalizzazione. Che la si intenda come una predisposizione a scambi commerciali o finanziari a livello planetario oppure come un vettore di sfruttamento legalizzato che fa della cessione di autonomia personale e dell’aumento delle disparità sociali il suo barbaro fulcro, che la si pensi in un modo o nell’altro, dicevo, certo è che questo evento pandemico porterà a ridisegnarne i contorni in modo forzatamente veloce.
Quando si pensa alla globalizzazione – se si trascurano le sue derive culturali e l’imposizione di modelli di comportamento standardizzato – di solito si insiste molto sul problema della delocalizzazione della produzione.
Negli scorsi decenni ha avuto luogo un processo complesso nel quale – complice il basso costo dei trasporti – le aziende hanno preferito spostare la produzione di tutti gli oggetti a forte indice di lavoro manuale in zone più o meno remote del pianeta. Certamente in luoghi dove il costo della manodopera era talmente basso da permettere da un lato di ridurre il costo finale dei prodotti, dall’altro di incamerare utili impensabili fino a pochi anni prima.
Questa pandemia ha reso evidenti almeno due falle in questo approccio economico, che sono apparse in tutta la loro plastica debolezza. Partiamo dalla prima.
Da un lato si è compreso che la movimentazione indiscriminata di persone, prodotti e semilavorati – realizzata stipando navi, aerei e treni lungo le arterie del pianeta – produceva effetti collaterali molto gravi. Tuttavia, fin quando questi si limitavano all’introduzione di qualche insetto o animale in ecosistemi differenti (introduzione che, va detto, produceva poi tremende conseguenze: dalla distruzione di raccolti fino al sovvertimento di interi ecosistemi), si è continuato a pensare che il gioco valesse la candela, soprattutto per tutelare coloro che, da questo sistema di regole, traevano molto profitto.
Oggi invece, che la movimentazione di oggetti e persone viene associata direttamente ai vettori di diffusione dei virus, la delocalizzazione rischia di entrare in una fase fortemente recessiva.
Esiste poi un altro fattore che potrebbe accelerare la caduta di questo sistema, sempre guardando al mero contesto economico. Questa crisi della globalizzazione si innesta perfettamente su idee maturate negli anni che hanno attribuito nuovo valore a concetti quali “artigianale”, “a chilometro zero”, “locale”, “made in…”, tanto che si è stabilita una gerarchia di valore che penalizza i prodotti delocalizzati rispetto a quelli creati nelle zone più sviluppate del mondo.
Oggi, molti prodotti top di gamma (ad eccezione del comparto elettronico e pochi altri) vengono nuovamente sviluppati e costruiti in Occidente. Questo non elimina completamente il problema della movimentazione dei semilavorati, ma perlomeno indica una robusta inversione di tendenza.
A tutto questo si somma poi una progressiva riduzione del gap salariale tra nord e sud del mondo (così da rendere meno conveniente la delocalizzazione) e la nascita di processi di robotizzazione diffusa – ne abbiamo già parlato – che mirano a ridurre la manodopera e minimizzare l’impatto del lavoro umano sul costo finale dei prodotti.
Ma non è tutto: passiamo al secondo elemento che ci fa riflettere in questo ambito. In questi anni si è compreso che delocalizzando in modo brutale la produzione di beni verso Paesi in via di sviluppo o con manodopera a basso valore, si è svuotato di fatto il bacino delle aziende capaci di produrre quegli stessi dei beni all’interno dei confini nazionali.
Facciamo un esempio che conosciamo tutti: quello dei DPI medici. Divenuti introvabili per gran parte di questa emergenza, si è scoperto che mascherine e affini vengono prodotte prevalentemente in paesi asiatici, anch’essi colpiti dall’epidemia. La delocalizzazione ha avuto come conseguenza che le nazioni occidentali si sono trovate improvvisamente sprovviste di apparecchi di protezione, macchinari medici, strumenti di uso quotidiano ecc.
Avendo da tempo dismesso le imprese locali che normalmente lavoravano nell’ambito della produzione di apparecchi medicali, l’Occidente intero si è trovato a dipendere da quelle stesse nazioni verso cui ha delocalizzato. Per una sorta di contrappasso dantesco – o come accade ad un sovrano abituato ad affidare ai sudditi le occupazioni pesanti – i paesi occidentali si sono scoperti impoveriti e svuotati di quell’industria che avrebbe permesso di fare fronte all’emergenza con un tempismo migliore.
Inoltre, la mancanza di una valido magazzino di beni ha impedito di strutturare una reazione adeguata all’epidemia, non riuscendo così a proteggere il personale medico-ospedaliero in modo conveniente e sottoponendolo ad una carneficina che, con con una programmazione industriale più accorta e un maggiore afflusso di DPI, si sarebbe potuta evitare parzialmente o totalmente.
Come in un gioco di cause ed effetti, questo deficit strutturale ha determinato uno stato di emergenza permanente che ha comportato l’emissione di misure draconiane per l’impresa, con il fermo strategico di intere filiere economiche e la forzata riconversione delle poche strutture produttive disponibili, che si è rivelata costosa e lenta.
Attraverso uno strano gioco del destino, quelle stesse imprese che hanno partecipato alla delocalizzazione si sono viste imporre misure restrittive che ne hanno limitato e compromesso i fatturato. Si potrebbe quasi dire che siamo di fronte ad un esempio fulgido di come la teoria del butterly effect abbia poi radici importanti nella realtà.
L’esempio della sharing economy mette poi sul banco altri spunti di riflessione. Una crisi come questa, che investe soprattutto il mondo reale e i cittadini, ha anche pesanti ripercussioni sul modo in cui questi vedono la condivisione di beni e servizi. Colossi come Uber e Airbnb, ad esempio, oggi si vedono sofferenti a causa della diffidenza tra le persone generata dalla pandemia. Risulta complesso coniugare la lontananza reciproca imposta dal Covid 19 con un sistema nel quale oggetti, case, servizi andrebbero condivisi. E’ pensabile quindi che questa nuova “umanità della distanza” porti a dover ripensare oppure aggiornare anche questi modelli di business.
Che si tratti di intraprendere una crociata verso i soli eccessi della globalizzazione, oppure che ad essere messa in discussione sia la stessa struttura del capitalismo mondiale, la pandemia di Covid 19 offre profondi segnali che già da tempo sono stati segnalati, soprattutto da molti intellettuali polanyiani che non credono nella capacità del mercato di auto-regolarsi.
E che quindi profetizzano la necessità, per lo Stato, di intervenire laddove apparissero distorsioni finanziarie, posizioni oligo o monopolistiche oppure violazioni della autonomia decisionale nazionale in tema economico.
In ogni caso, ci auguriamo che, della globalizzazione, rimanga vivo un aspetto: quello della cooperazione internazionale. Per capire questo concetto, basta riflettere su come è stata gestita la pandemia a livello internazionale.
In Europa, ad esempio, abbiamo visto esempi diversi di reazione al virus. Ci sono stati Paesi che hanno gestito molto bene la pandemia, come la Germania. Altre che hanno ridotto al minimo o addirittura evitato il lockdown, come la Svezia. Nazioni preparate strutturalmente, con una solida sanità e un piano emergenziale adatto a ridurre all’impatto del virus.
E poi altri paesi, forse più esposti, forse primi della lista, forse attaccati da un ceppo virale più resistente, forse più inquinati, può darsi. Ma forse anche molto meno strutturati, nonostante le buone intenzioni dei governi, come ad esempio l’Italia. Paesi con un sistema sanitario pubblico sfasciato da anni di sussidi ai privati e sprechi inenarrabili, incapaci di riflettere serenamente sui problemi. Paesi assordati da una continua, avvilente campagna elettorale; occupati a parlare d’altro fino a quando un evento esterno non irrompe nella quotidianità e mette alla berlina decenni di retorica politica, discorsi privi di profondità e un soliloquio di banalità spacciate come vere.
Bene: in questo contesto europeo, dove abbiamo visto diversità enormi nella capacità di reazione delle Nazioni, quale è stato il sentimento di cooperazione diffuso? I paesi più forti hanno spalleggiato e sostenuto quelli in difficoltà? Hanno inviato materiali di soccorso, medici, beni essenziali? Si sono prodigati per sostenere il reciproco sistema economico, le famiglie, i redditi? Si è sperimentato un sentimento di immediata vicinanza tra nazioni con un interscambio sereno ed efficace per mettere in comune strutture, beni, meccanismi di decisione? No davvero. Non per ora, almeno.
Eppure sarebbe stato possibile: la pandemia, per quanto registrata in tutti gli Stati, ha colpito le nazioni in tempi e modi molto diversi. Mentre l’Italia era nell’epicentro del contagio, ad esempio, molti altri paesi erano quasi del tutto immacolati. Avrebbero avuto tempo e modo per organizzare un sofisticato piano di assistenza comunitaria, magari con qualche task force specializzata e itinerante capace di spostarsi tra i Paesi colpiti per suggerire protocolli e metodologie. Fornendo beni di emergenza e favorendo la distribuzione delle apparecchiature in ordine prioritario: prima alle nazioni più bisognose e via via a quelle già rifornite o comunque che potevano aspettare qualche giorno o settimana.
Una rete globale di assistenza contro i grandi eventi catastrofici è adesso un’esigenza planetaria, al pari delle misure di riduzione selettiva dei consumi di cui parleremo tra poco.
L’approccio economico e finanziario mondiale non è un moloch inscalfibile che l’umanità deve accettare come fosse un tratto endemico dell’esistenza. Al contrario: è un fenomeno umano con un ciclo di vita destinato a durare solo per un certo periodo. Immaginare il futuro è il compito primario di un Occidente chiamato a superare le contraddizioni dei suoi gruppi di interesse e proporre un’alternativa capace di porsi in modo laico e pragmatico di fronte al futuro.
Progetto collettivo di analisi socio-politica sul Covid 19. Scenari post Coronavirus: opportunità e vicoli ciechi. Cosa possiamo imparare dall’epidemia di Covid 19. Tutto il materiale contenuto nel sito è riservato e non può essere riprodotto senza l’esplicito consenso degli autori.
Testi aggiornati il 4 maggio 2020.
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