NODO 3
Nuove dinamiche
di consumo
dalla tutela del suolo fino alla revisione del concetto di globalizzazione
dalla tutela del suolo fino alla revisione del concetto di globalizzazione
e stretta sul consumo di prodotti animali
Leggendo la lunga catena di avvenimenti che hanno portato all’esplosione dell’epidemia di Covid 19, giornali e trasmissioni televisive analizzano minutamente le variabili mediche ed epidemiologiche, informano i cittadini in modo minuzioso con grafici, numeri e percentuali, ma trascurano il più delle volte (ed inspiegabilmente) l’analisi della cause che hanno a che fare con il nostro stile di vita e le nostre pratiche individuali.
Il consumo di suolo, di cui abbiamo già parlato, è una cosa che ci tocca direttamente. Ma in fondo, appartiene a quel genere di argomentazioni che riveste un’importanza “relativa” nell’immaginario pubblico.
Del resto di cosa si tratta: preservare alcune aree remote del pianeta? Possiamo starci. Certo: dovremo impiegare una parte del bilancio pubblico per tutelare queste aree. E sì, naturalmente: dovremo anche lottare con quei plotoni di negazionisti che ancora rifiutano di stabilire un nesso causale tra gli avvenimenti che viviamo e alcune scellerate scelte politiche e produttive planetarie.
Ma poi, qualora le limitazioni investissero la nostra sfera privata? Qualora si trattasse di scegliere tra “poter” accedere o meno ad un bene, indipendentemente dalla possibilità di pagarlo? Qualora fosse imposto un limite a certi acquisti o certi consumi perchè ritenuti incompatibili con la tutela del nostro pianeta e delle aree sensibili più a rischio? Oppure ancora, se non fosse più possibile produrre alcuni oggetti perché le materie prime scarseggiano?
Cosa faremmo: grideremmo alla dittatura? Fomenteremmo una guerra civile? Parleremmo di autoritarismo statalista che soffoca la libertà individuale e di impresa?
Di Coltan abbiamo già parlato: dove si estrae questo minerale non solo è in corso una furiosa guerra per il controllo dei giacimenti, ma pure è in atto un selvaggio disboscamento forestale che ha sconvolto l’ecosistema locale. Bene: dove si estrae il Coltan è scoppiata l’epidemia di Ebola, una delle più tenaci della storia recente.
L’Ebola è una febbre emorragica tremenda, virale, di origine zoonotica naturalmente, che porta alla morte circa il 50% dei contagiati. Uno su due sopravvive, per essere chiari. L’Ebola è il prodotto della nostra volontà di disboscare per ottenere terreni liberi e aree di scavo per minerali e materie prime.
Anche se l’Ebola non è ancora sbarcata in Europa – e ci auguriamo non succeda mai – questo ci mette al riparo da nuovi pericoli? Ci assolve dal diritto morale e politico di partecipare ad un processo pacifico che conduca alla risoluzione di quella crisi internazionale? No di certo. Intervenire in contesti come quelli, con il peso della diplomazia e con alcuni dei provvedimenti di cui abbiamo parlato, è la sola soluzione praticabile per garantire un futuro a quella parte di genere umano e, di riflesso, a tutti noi.
Infatti, anche se cercassimo di ragionare mossi da semplice egoismo, facilmente potremmo capire che i costi sociali di un’epidemia di Ebola mondiale sarebbero incalcolabili. E’ per il nostro tornaconto e per il nostro benessere che dobbiamo occuparci di questa e di altre questioni, non semplicemente per tutelare i diritti di una lontana popolazione africana.
Vi sono però ci sono scelte diametralmente più semplici: scelte che tutti potremmo praticare, ma che ugualmente avrebbero un peso enorme sull’economia mondiale se queste diventassero un comportamento diffuso e largamente praticato. Una scelta su tutte: il consumo di carne.
Ora, parlare di protocolli alimentari, in Italia, è sempre molto rischioso. Sappiamo, non serve ripeterlo, che l’informazione italiana è fortemente influenzata dalle grandi imprese dell’industria alimentare.
Sappiamo altresì che questa forma di deep state non permette una discussione aperta sui temi dell’alimentazione (tanto meno su quelli dell’alimentazione naturale) tramandando ad ogni ora del giorno favole anacronistiche che molti media rilanciano con enfasi nonostante le più autorevoli istituzioni mediche e l’O.M.S. raccontino, da molti anni, tutt’altra verità.
Qui, vogliamo precisarlo, non si tratta solo di preservare alcuni interessi costituiti, di mettere in pericolo un settore economico che vede l’Italia ancora leader nel mondo. La posta in gioco è ben più alta e riguarda – come stiamo sperimentando in questi mesi – la sopravvivenza di noi tutti.
Ma davvero il consumo di carne è legato a doppio filo alle pandemie? Proviamo a spiegare questo nesso.
Abbiamo già detto di come il consumo di suolo serva perlopiù a liberare zone da adibire alle coltivazioni. Quello che non abbiamo ancora detto è che la produzione di carne è uno delle lavorazioni più inquinanti del pianeta e che richiede enormi quantità di suolo per essere sostenuta.
1 kg di carne bovina, in termini di nutrimento per animale, comporta l’uso di circa 15.000 litri d’acqua e di 15 kg di proteine vegetali. Un ettaro di terreno coltivato a cereali può produrre il fabbisogno utile a generare 50kg di carne. Con lo stesso terreno, invece, si potrebbero ottenere 10.000 kg di pomodori, 8000 kg di patate oppure 6000 kg di mele.
E’ facile capire che proporzione enorme di terra e di coltivazioni sia richiesta per nutrire tutti gli animali destinati alla macellazione presenti sul pianeta. Ed è altrettanto facile comprendere quanto il sistema di allevamento mondiale sia sempre affamato di nuova terra, nuovo spazio, nuovi luoghi ove impiantare centri di allevamento o coltivazione di cereali per l’allevamento.
Non solo: qualora i terreni coltivati o gli allevamenti intensivi si trovassero in zone prossime alle aree forestali, o queste ultime vicine ai mercati di vendita degli animali o confinanti con i macelli? Aumenterebbe esponenzialmente il rischio che avvengano contatti tra animali selvatici e non. Da qui, probabili episodi zoonotici e nuovi spillover. Una vera e propria (come è già stata definita) bomba ad orologeria.
Si potrebbe obiettare che il Covid 19 non ha relazione diretta con gli animali di allevamento. E questo è probabilmente vero: anche se non vi sono notizie sicure in merito, molte ipotesi dicono che l’animale ospite che ha permesso lo spillover tra pipistrello e uomo sia in realtà un animale selvatico, forse un pangolino. Ma questo non sposta il problema, anzi in qualche modo lo accentua.
Prima di tutto, ad essere generate dagli animali di allevamento sono moltissime altre patologie virali e batteriche. Tra queste: SARS, Ebola, Zika, Mers, l’influenza aviaria e suina, per non parlare delle infezioni da Escherichia coli, Campylobacter e Salmonella. Gli allevanti intensivi – presenti ovunque nel mondo – per loro estensione e conformazione sono dei veri incubatoi (in)naturali. Quando una malattia si presenta all’interno di un allevamento non si può prevedere quanti animali vengano infettati, dove finiscano le loro carni, quali mercati del mondo le esporranno e venderanno. Per questo poi si procede ad abbattimenti indiscriminati.
In secondo luogo – lo diciamo per sedare ogni dubbio – dobbiamo fornire un altro spaventoso dato. Al momento si stima che esista un enorme numero di virus, circa 320.000, che colpiscono i mammiferi ma non l’uomo. Se questi virus mutassero, ed arrivassero a noi attraverso meccanismi sconosciuti o effettuando un salto di specie, non abbiamo la più pallida idea di quello che potrebbe accadere.
Potrebbero emergere nuove malattie capaci di sterminare popolazioni, decimare continenti, lasciare tracce così profonde nella storia dell’umanità come lo sono state la peste bubbonica o le altre epidemie del passato.
Non si tratta di un’ipotesi fantascientifica ma un’evenienza reale, presente, che riguarda la nostra quotidianità. L’isolamento che sperimentiamo oggi è una diretta conseguenza di tutto questo.
Altro esempio? Malesia. Ai margini delle aree forestali, all’interno di allevamenti suini, scoppiano focolai di una malattia mai vista. Viene chiamata Nipah e colpisce i suini, i gatti, i cani e, per uno spillover, anche gli umani. Il Nipah provoca decessi tra il 40 ed il 70% dei casi, si manifesta con febbre e vertigini per virare verso forme gravissime di encefalite e, a seguire, la morte. Non fa distinzioni di sesso, età, condizione fisica. Ha già provocato un centinaio di vittime prima di venire isolata tramite l’abbattimento di milioni, ripeto milioni, di suini potenzialmente infetti. Nessuno può prevedere cosa succederebbe se una patologia di questo genere scavalcasse i confini di una regione e diventasse pandemica.
Nota curiosa? La Malesia è un paese musulmano. Gli allevamenti intensivi di suini non sono ad uso e consumo della popolazione locale. Sono per noi, per l’Occidente. Vengono allevati per essere esposti sui nostri mercati, lavorati per realizzare i nostri prodotti.
Con i criteri di invasione del mondo naturale sempre crescente, ci troviamo nel mezzo di una lotta contro il tempo. La domanda non è “se” esploderà una nuova pandemia, ma solo “quando” e “quali caratteristiche avrà”. Se dovesse emergere un virus davvero aggressivo, con tassi di mortalità di molto superiori al Covid 19, potremmo trovarci di fronte ad un serio pericolo per tutta la razza umana.
Altro elemento: l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi. Ce ne sono anche molti in Italia, lo sappiamo tutti. In Lombardia, la regione più colpita dal Covid 19, l’85% delle emissioni di ammoniaca è causata dagli allevamenti intensivi, nella fattispecie dai liquami prodotti dagli animali. L’ammoniaca provoca, come dicono i tecnici, una sovraconcimazione degli ecosistemi sensibili (quindi una diffusione incontrollata di sostanze) e produce gas serra come metano e protossido di azoto. Inoltre crea polveri fini respirabili (PM10), riconosciute dal mondo medico come dannose per l’organismo. Queste particelle sono anche quelle a cui più facilmente si “lega” il virus per diffondersi nell’aria.
Ultimamente è uscito l’articolo di un immunologo famoso che indica nei centri di macellazione e confezionamento della carne un “superdiffusore”, ovvero un ambiente in cui le condizioni di lavoro, la materia prima trattata (tessuti organici macellati), la climatizzazione forzata e le pratiche standardizzate favoriscono la diffusione sistematica del Covid 19. Un pericolo per l’intera comunità, insomma.
Questi dati sono solo la punta dell’iceberg. Servirebbero libri per trattare le molte patologie che hanno attaccato l’uomo negli ultimi decenni: tutte però hanno un comune denominatore. Il consumo del suolo e l’allevamento massiccio ed intensivo di animali per la macellazione.
Per contrastare il fenomeno del consumo di carne servirebbero provvedimenti internazionali mirati.
Nei paesi in via di sviluppo – dove abbondano baraccopoli, bassi standard igienici e molta ignoranza – per fare comprendere profondamente alla popolazione i rischi delle epidemie zoonotiche servono iniezioni di istruzione e grandi sussidi. Ai governi locali – sotto forma di aiuti economici, moratorie e strategie convincenti di moral suasion – occorre comprendere appieno la proporzione del pericolo. Serve servono task force e organismi specializzati internazionali per imporre controlli, standard di produzione, rispetto del suolo e degli animali, misure e protocolli per arginare eventuali epidemie locali.
Per noi occidentali, che ormai ben dovremmo aver capito i rischi di questo genere di comportamento, serve prendere una posizione stabile e condivisa sull’argomento. I movimenti ambientalisti o vegetariani stanno via via crescendo di numero, ma la lotta contro il tempo è serrata.
Occorre una partecipazione popolare, capillare, un cambio di abitudini muscolare che faccia crollare la domanda di carne e, con essa, l’economia relativa alla sua produzione.
Gli Stati occidentali stanno minimizzando questi rischi per paura di colpire la propria economia interna. Se forzati, anche per redimersi di fronte all’opinione pubblica e simulare una pallida alternativa possibile, proveranno a spostare l’allevamento intensivo di carni verso zone remote del pianeta. Questo non servirà, e semmai acuirà il problema perché esporrà popolazioni non preparate e non dotate sanitariamente a nuove epidemie.
Poi si tenterà di giocare la carta dell’igiene. Molte aziende del settore alimentare sfrutteranno la paura di una nuova pandemia per promuovere nuovi stili di allevamento “iper-igienici” a basso uso di medicinali veterinari e antibiotici oppure imporre l’utilizzo di alimenti surrogati, sintetici o brevettati, promossi in nome della food security e di una maggiore richiesta di controllo della filiera.
Queste lotte per l’occupazione di un nuovo mercato non solo non produrranno effetti sostanziali, ma anzi genereranno un sentimento di falsa sicurezza che disattiverà l’attenzione verso i veri cardini della questione, che sono e rimangono relativi alla produzione intensiva di carne su tutto il territorio planetario, soprattutto nelle zone più povere e remote.
Abbiamo iniziato questa analisi parlando di chi dovrà pagare il conto. Alla fine di queste righe possiamo dire che il conto lo pagheremo tutti noi, nella migliore tradizione contemporanea che impone la nazionalizzazione dei debiti e la privatizzazione degli utili.
Solo una presa di posizione internazionale, che ignori le pressioni delle grandi corporation e del deep state, può porre le basi di una soluzione sostanziale di questo problema e degli enormi corollari (sanitari, umani, morali) che esso comporta.
Limitare la produzione e l’importazione di carni, proporre soluzioni alternative per l’alimentazione di massa, istruire la popolazione al rispetto delle regole promosse da organismi come O.M.S. e altri istituti che seguano i grandi studi clinici sulla nutrizione. Seguire questi dettami, non solo permetterebbe di promuovere un’economia che abbatta il rischio di pandemie, ma consentirebbe anche di risparmiare miliardi prevenendo e diminuendo l’insorgenza di patologie derivate da stili di vita errati. L’educazione è la chiave del cambiamento.
Progetto collettivo di analisi socio-politica sul Covid 19. Scenari post Coronavirus: opportunità e vicoli ciechi. Cosa possiamo imparare dall’epidemia di Covid 19. Tutto il materiale contenuto nel sito è riservato e non può essere riprodotto senza l’esplicito consenso degli autori.
Testi aggiornati il 4 maggio 2020.
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