NODO 1
Un nuovo concetto
di distanza
Dalla distanza interpersonale e di relazione ad una diversa fruizione dei contenuti
Dalla distanza interpersonale e di relazione ad una diversa fruizione dei contenuti
e la revisione del concetto di prossimità
Si è detto molto rispetto al processo di tecnologizzazione diffuso che sta pervadendo il mondo. Per cercare di rappresentarne tutte le implicazioni si è ricorso ad esempi pittoreschi e metafore di facile comprensione. Alcune sono risultate efficaci, altre molto meno. Ma tra tutte, una particolarmente fortunata è quella che paragona il percorso umano – e l’evoluzione tecnologica – ad un treno in movimento che si sposta lungo un binario lineare proiettato nel futuro e nel miglioramento.
Ma se da un lato risulta particolarmente opinabile quel lato della metafora (nata da un’evidente matrice cristiana) che dipinge il futuro come per forza “migliore”, “evoluto” e “libero”, in un’ottica più vasta l’esempio conserva il suo fascino. In questa comparazione, infatti, si pongono le basi per comprendere profondamente quale ruolo gioca la tecnologia all’interno del nostro sistema di valori e regole.
Se volessimo tornare alla nostra metafora, la funzione primaria della tecnologia corrisponderebbe più o meno al lubrificante che permette lo scorrimento del treno sulle rotaie. La tecnologia, in effetti, per quanto non sposti i termini del movimento – ovvero non alteri le dinamiche di fondo del “sistema ferroviario” che abbiamo descritto – rappresenta quell’elemento che può rendere molto più facile, immediato e snello il transito lungo i binari.
La tecnologia quindi – in primis quella appartenente alla cosiddetta rivoluzione digitale – fluidifica e smussa gli ostacoli, allevia gli attriti, permette un interscambio osmotico tra le parti addomesticando i contatti e rendendo permeabili i confini. La tecnologia è quindi l’olio che permette un facile scorrimento all’interno di un apparato caratterizzato da una gargantuesca inerzia.
E’ proprio in questo scenario di forze, dove ogni elemento contribuisce ad alleggerire oppure a frenare il movimento, che si colloca la tecnologia e il suo potere radicale e tolemaico.
Fino a pochi anni fa la tecnologia “analogica” serviva più che altro per sostituire l’uomo, quando e dove fosse possibile introdurla. Un apparato meccanico poteva funzionare meglio di un singolo individuo, essere più veloce, richiedere meno fatica. E per quanto la promessa di scambiare tecnologia per libertà – perché era questa la grande lusinga fatta ai lavoratori di tutto il mondo: introdurre più tecnologia per avere in cambio più tempo libero da dedicare a sé e alle famiglie – per quanto questa promessa, dicevo, non sia stata mantenuta affatto, è chiaro che l’introduzione di tecnologia nella vita quotidiana non è stata in grado di mutare più di tanto le dinamiche sociali o la percezione del lavoro e la sua complessa disciplina.
Oggi è diverso: la tecnologia si è trasformata in tecnologia “digitale”, diventando pervasiva e saturando l’esistenza con periferiche diffuse e altri strumenti di accesso, si è verificato un cambiamento radicale dell’ambiente.
Come ci insegna bene la matematica e la linguistica: quando un mutamento comporta una rivoluzione quantitativa, il risultato non è solo l’accrescimento di un parametro ma la trasformazione qualitativa dell’ambiente medesimo.
Facciamo un esempio che riguarda le foreste, argomento che ci interessa e che tratteremo più avanti per altri motivi. Se in una foresta sradico un singolo albero, la foresta rimane più o meno intatta anche se, a rigor di logica, si trasforma in una foresta più spoglia. Ma se sradico improvvisamente il 90% di quegli alberi la foresta muta radicalmente, soprattutto a livello funzionale, linguistico e simbolico. Quel 10% di alberi rimasti non possono più essere riconosciuti come “foresta” e nemmeno riescono a svolgere la funzione della “foresta”. Assistiamo dunque ad un processo che, aumentando quantitativamente (sradicamento del 90% degli alberi), trasforma il paesaggio di riferimento in senso qualitativo (diverso concetto di foresta).
La tecnologia nello stesso modo. Quando una singola unità tecnologica si introduce nell’ambiente, il risultato finale non muta poi di molto. Ma se questa diventa comune, onnipresente, talmente pervasiva da costruire attorno a sé una nuova dinamica delle relazioni, allora a mutare è l’intero paesaggio umano di riferimento. Da passaggio quantitativo, appunto, a risultato qualitativo.
Noi non sappiamo ancora se questo mutamento avrà un segno positivo per l’umanità. Se davvero sarà una stazione ulteriore di quel treno proiettato nel futuro di cui parlavamo all’inizio. Quello che è certo, però, consiste nel fatto che la tecnologia imporrà una nuova dinamica delle relazioni e la consacrazione della distanza come fattore non solo “funzionale e utile” ma intimamente connesso alla specie umana del futuro.
Nel breve periodo, ci accorgeremo che l’isolamento di questi mesi ha prodotto evidenti conseguenze sul piano psicologico: conseguenze non ancora diagnosticabili ma che potremo cominciare a verificare molto presto. Capiremo quanto questa retorica del “desiderio di ritrovarsi”, fortemente annunciata e promossa alla vigilia della cosiddetta “Fase 2”, sia in realtà più una strategia commerciale pensata ed applicata per veicolari nuovi consumi e ristabilire un ordine normale delle cose, piuttosto che una reale ed intima necessità.
Come se le periferiche di cui abbiamo usufruito oltremisura negli ultimi mesi – amplificate nel loro vertice quantitativo – avessero permesso di superare una sorta di punto limite che ha prima sdoganato e poi legittimato la distanza come fattore dominante e fondativo della civiltà.
Naturalmente questo non significa che nel futuro si potrà vivere solo “virtualmente”. Al contrario: resteranno (e solide) le occasioni di interazione de visu e gli scambi interpersonali nel mondo reale. Ma saranno come una via di fuga laterale, quasi una valvola che permetta di sfogare una pressione eccessiva.
La verità è che nella vita quotidiana, a qualsiasi latitudine, un nuovo sistema di regole e la funzione fluidificante della tecnologia costituiranno un combinato disposto di vettori capaci di piegare e distorcere la nostra percezione della realtà fino a scortarci verso le regole del futuro (come su di un treno, appunto) senza percepire alcun attrito.
Questa nuova umanità della distanza richiederà che si disegnino scenari differenti ed il conio di significati nuovi per le parole che già conosciamo. All’interno del dibattito pubblico compariranno nuovi significati per il concetto di democrazia, di uguaglianza delle persone e delle popolazioni, di valore del voto individuale, di partecipazione alla vita pubblica e così via.
Sarà ridisegnato lo spazio dei rapporti amicali e famigliari (soprattutto quelli giovane/anziano), sarà ri-progettata la collocazione degli esseri umani in base agli sviluppi anagrafici e sanitari, la geografia dei diritti, la percezione delle regole comuni, lo spazio riservato a coloro che, queste regole, scelgono di non seguirle.
Il linguaggio, come sempre accade, sarà il vettore di questo cambiamento.
Tornando alla nostra metafora del treno: se la tecnologia è l’olio che fluidifica lo spostamento, il linguaggio potrebbe essere il motore della locomotiva. Pensiamo – cosa accaduta di frequente durante i momenti di maggior tensione sociale del lockdown – all’impiego smodato di metafore prese di peso dal contesto militare. I medici erano tutti “in trincea”, il virus demarcava “linee di confine”, sul campo cadevano “eroi”, i ricercatori “combattevano per annientare” il virus e così via con molti altri esempi possibili.
Questo linguaggio fatto di contraddizioni muscolari e intransigenza retorica era funzionale ad evidenziare la potenza e la drammaticità del momento storico. Era utile a creare quello che tecnicamente si chiama un “frame” linguistico all’interno del quale calare scelte concrete (politiche, economiche, strategiche) utili a due scopi. Da una parte, rassicurare i cittadini e ridurre lo stato di shock. Dall’altra, delegare ad un gruppo di esperti (soldati o presunti tali: come ad esempio i medici, che soldati non sono ma in questo modo venivano raccontati) l’onere di ricondurre il conflitto alla normalità. Il tutto per compiere uno straordinario ribaltamento della percezione.
Di più: parliamo di lontananza come percezione del corpo e dell’Altro. In qualche modo, il Covid 19 è riuscito a fare quello che anche l’HIV non è stato in grado di compiere. Se ci pensiamo, infatti, uno dei grandi effetti collaterali dell’AIDS è stato quello di limitare o depotenziare la rivoluzione sessuale in atto. La liberazione del corpo, e con essa quella del pensiero, è sempre passata attraverso l’emancipazione dalle regole strutturate in tema famigliare, etico e sessuale.
Per riuscire ad immaginare una società diversa occorreva in qualche modo essere in grado di sperimentare e praticare questa consapevolezza attraverso la distruzione dei canoni calcificati, dei totem indiscutibili che fondano la nostro comunità. Tra questi, certamente tutta quella serie di divieti morali relativi alla sfera sessuale ed erotica. L’AIDS, con i suoi corollari forzati di diffidenza, sospetto e paura dell’altro, ha in qualche modo indebolito o annullato la possibilità di portare alla luce la sessualità come elemento pubblico. Al contrario, ha confinato la deregolamentazione del corpo alla pura sfera privata.
Nell’era post-AIDS, chi possiede costumi libertini o comunque non in regola con il rispetto di regole riconosciute come “normali” (per esempio: la coppia composta da due individui stretti da un patto di reciproca fedeltà), non solo veniva percepito come un reprobo traditore, ma anche come una potenziale fonte di contagio.
Nell’epoca post Covid 19, i sospetti si intensificheranno in modo da allontanare sempre più la dimensione corporea dalla sfera dell’interazione ed assurgere a principale canale di interscambio l’ambito virtuale. Non solo la componente sessuale, ma anche quella della normale interazione tra conoscenti o estranei si assottiglierà fino a risultare “sconveniente”, “pericolosa”, “sospetta”. In sintesi, quello che fino a pochi mesi fa consideravamo come il fondamento di una relazione umana (la vicinanza, l’interscambio, la prossimità fisica, la condivisione dello spazio intimo) sarà riprogrammato nei suoi significati profondi fino ad apparirci con un’accezione diametralmente opposta.
Più in generale, quello che vediamo avvicinarsi è una nuova “normalizzazione del sospetto” con un conseguente rifiuto di tutto quanto appaia come biologico, non-meccanico, quindi realmente (e pericolosamente) umano.
Inoltre si acuirà il rifiuto della componente biologica come manifestazione della caducità dell’esistenza. Il nuovo essere umano che abiterà questa nuova dimensione della distanza – per viaggiare sereno verso il nuovo futuro che lo aspetta – richiederà che venga rimosso, per quanto possibile, anche il grado di arbitrarietà di tutti eventi. Pretenderà che vengano ridotte al silenzio parole come limitatezza, debolezza, incertezza, caso, mistero e così via. Inoltre, per traslazione, imporrà che siano allontanate tutte le motivazioni soggiacenti al problema dell’epidemia. Incognite che, lo vedremo, sono molte e ci riguardano direttamente.
Farne una questione bellica, in questo caso, è servito a mascherare il lockdown dietro il paravento di un’aggressione esterna. Il virus è il nemico alle porte che preme per entrare nei nostri confini e distruggere la nostra civiltà. Dobbiamo difenderci: adottare pratiche estreme per combattere una battaglia altrettanto epocale. In questa lotta verso la vittoria potremo quindi volgere lo sguardo sempre verso i confini, verso l’altro da noi, confinando all’esterno la paura e la responsabilità. Scacciando l’ipotesi spaesante che questa pandemia, come vedremo più avanti, sia un problema di gestione umana e una diretta responsabilità attribuibile alle nostre scelte, al nostro comportamento.
La pandemia ha smascherato un sistema di responsabilità che non potevano più essere tenute nascoste dietro i delicati equilibri della politica internazionale. Ha posto l’accento, in modo ineluttabile, sugli equivoci del passato. Ha ridicolizzato i luoghi comuni che davamo per scontati. Ha nuclearizzato le opinioni di chi contribuiva a creare una “cultura della sicurezza” fatta di stratagemmi retorici e oggetti confortevoli. Ha polverizzato l’illusione di un Occidente pervaso da immacolata igiene, simile in tutto e per tutto ai suoi eterei strumenti tecnologici che sembrano puntare ad una irreale perfezione.
La creazione di questa umanità della distanza – che ancora, ripetiamo, non sappiamo se porterà ad un’evoluzione o meno – non deve diventare l’ennesimo stratagemma o palliativo impiegato per allontanare le cause del problema e rendere tollerabili le nuove condizioni di vita e di condivisione che ci aspetteranno in futuro. Al contrario deve essere l’occasione per una riflessione che dobbiamo affrontare, qui ed ora. Lucidamente.
Creare una nuova umanità abituata alla distanza, che ha fatto di questo elemento un tratto caratteristico della propria percezione della realtà, è lo strumento usato per mascherare e esiliare problemi di matrice umana che richiedono di essere risolti. Invece, questa nuova percezione delle relazioni deve essere l’occasione per smantellare i processi calcificati che hanno generato questo cortocircuito planetario chiamato Covid 19.
Progetto collettivo di analisi socio-politica sul Covid 19. Scenari post Coronavirus: opportunità e vicoli ciechi. Cosa possiamo imparare dall’epidemia di Covid 19. Tutto il materiale contenuto nel sito è riservato e non può essere riprodotto senza l’esplicito consenso degli autori.
Testi aggiornati il 4 maggio 2020.
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